capitolo 2
lontano dai pini di respighi
Capodanno 1995. Il cameriere scosta elegantemente la sedia e fa accomodare al tavolo Carlo, ignorando di trovarsi di fronte ad un sedizioso incallito, che per l’occasione ha deciso di spendere tutto quello che gli è rimasto. Un milione di lire, circa.
I volti adorni di festa, la gente sgualcita da brillanti affanni, lo distraggono. Il cameriere attende, ma è impossibile non lasciarsi affascinare dallo sguardo malinconico di quella quarantacinquenne dai capelli chiari, con il tempo che passa imboscato nel fard. Deve essere ricca. La corteggerà. E’ la sua specialità recitare la parte di principe azzurro e grande amante, che si trasforma per magia in principe… al verde.
L’uomo in livrea gli illustra diligentemente il menù. Ma sì, a Capodanno ci sta bene un antipasto di mare, orata alla griglia con porcini in umido. Come primo un bel piattone d’agnolotti al salmone, grazie.
La carta dei vini. L’anziano cameriere impettito avvertì il dovere di proporgli un ottimo Pigato, ma lui no: Rossese di Dolceacqua. Il rosso è perfetto col pesce. Uno schiaffo al bon ton gastronomico! Carlo, sin da ragazzo, era un insorto di belle speranze. In quella occasione non voleva smentirsi. Era soddisfatto d’aver portato la contestazione enologica sotto le nobili volte di quel ristorante storico.
La bionda, sottintesa nel maquillage, evitava il suo sguardo, e lui si concentrava pigramente sul digiuno esistenziale, carico di debiti. Eppure lo aveva giurato a se stesso: dopo l’esame di maturità va dove vuoi, ma non in quella direzione. Perché? Semplice, le auto sportive non gli piacevano, come le palestre, i cocktail, le cene malevole, il golf, la tecnologia, gli orologi deluxe, le vacanze alle Barbados e le gite a Lugano. Era vincolato, per sentirsi il preferibile. Le ultime ore del 1995 agonizzavano e nonostante fosse costretto a passare San Silvestro da solo, non era voluto restare a casa.
Il 1995, anno di merda, da gettare. Rosalba lo aveva mollato lì, come un ritardato, per passare capodanno in Kenya con un’amica: - Devo prendermi una pausa, rilassarmi un po’. Dopo, forse, potrò decidere se continuare questa storia assurda… aveva detto. Se l’amica era fornita di un bel manico e tanti soldi, lui avrebbe perso… tutto. Carlo faceva il gradasso, ma in realtà spendeva i quattrini degli altri e suo padre era malato: più che l’inizio del nuovo, festeggiava la fine del vecchio.
La sua mente ripensò alla vacanza in luglio con lei, in Spagna, e ad un articolo che aveva letto su una rivista scientifica, seduto in un caffé di Cadaquès: L’ultima ipotesi cosmologica sulla vita dell’Universo.
Il cosmo era come un Dalì. Spaventoso numero di dipinti, disegni, sculture, suddivisibili in ere. All’inizio c’è un puntino con i baffetti, che s’incazza, esplode e inizia a pitturare all’infinito. Poi? Le opere abbandonano l’autore, il loro centro di gravità, escono dalle orbite e vagabondano per la galassia delle gallerie d’arte, delle case, dei musei, infine scompaiono nelle casseforti, in profondi sotterranei: i buchi neri.
I buchi neri inghiottono tutto: Dalì, Catalogna, Rosalba, stelle e pianeti. È la salvezza! I buchi neri stellari sono inglobati da quelli super stellari e questi da quelli galattici che vanno a sommarsi all’immenso buco nero universale. Ed esso si comprime sino a formare il Big Crunch, lo stesso puntino di partenza, che è incazzato al contrario e rivuole tutto indietro. Dalì era un padre eterno, ma assai egocentrico, diciamocelo francamente.
Se andasse così, il ciclo ricomincerebbe e l’eterno ritorno attuerebbe la sua profezia. E invece no! Cosa decidono di fare queste opere d’arte nere, densissime, imprevedibili, accentratrici, identiche a Dalì? Evaporano e decadono, inarrestabili. Si giungerà così all’ultimo atto, nel quale tutto tornerà al geniale zero assoluto: Dalì, appunto.
Ricordò queste considerazioni, fatte cercando di non giudicare troppo il volto di Rosalba, che beveva gaspacho, continuando ad orientare la faccia verso il sole, come un girasole esagerato. Carlo non accettava il passare del tempo e il radicarsi dei difetti estetici e morali sul viso e sul corpo di Rosalba. Lei si ostinava a prendere troppo sole, ovunque e sempre, possibilmente nuda anche sulle spiagge dove era vietato, con i seni rinsecchiti e il culo enorme. Era felice di poter mostrare una corona di solchi e di zampe di gallina attorno agli occhi, da fare invidia alla Strega Nocciola. La sua pelle era incartapecorita, ingiallita, mentre lui ambiva ad un’eterna gioventù; si badi bene, non l’adolescenza, la giovinezza, che regala anche alle persone con un fisico non proprio perfetto una bellezza egualmente piacevole, desiderabile, elegante. Lei, invece, voleva solo che lui contribuisse all’economia della convivenza, trovando un lavoro vero, diceva, uno qualsiasi. Doveva finirla di fare il direttore di una televisione di serie b! Smetterla di giocare d’azzardo, inseguendo affari improbabili! Carlo, combattuto tra dovere, amore ed appagamento estetico, non riusciva a trovare un modo per unificare i pensieri e i giudizi che gli trapassavano la mente come frecce. La meditazione non serviva. La sua consapevolezza voleva pensieri. Sapeva che la conclusione cui giunge ogni mistico è la rimozione di Dio. Dio non è un Altro da amare, da temere o da adorare. Dio è dentro di te: non ci sono broker. E’ così anche per il lavoro. Il lavoro non è una cosa da amare o da temere o da adorare. Il lavoro è dentro di te, senza intermediari; se non l’hai dentro, il lavoro, proprio non puoi capirlo. Fa parte della natura umana aver paura di ciò che non si capisce. L’accettazione del dovere giunge dopo aver completamente rimosso l'Io psicologico. In sintesi, per mantenere vivo il rapporto, non avrebbe dovuto domandarsi se Dio esiste, né chiedersi perché si debba lavorare, ma lavorare, perché così esigeva Rosalba, e non rompere i coglioni.
Nello stesso istante in Piazza Respighi, Guido vide scendere da un taxi una tizia grassoccia, con la faccia da cuoca. Era gonfia, con le guance flaccide da alcolista, radi baffetti alla Poirot. Ondeggiava leggermente su quelle gambe enormi, larghe come copertoni. Sperò che si dileguasse senza notarlo. Inutile, se ne intendeva, fiutava ad occhio se nei paraggi c’era un’altra spugna. Era ben vestita, portamento severo. Sembrava una vera signora, sbronza marcia. Forse aveva anticipato il brindisi di mezzanotte. Si avvicinò a Pier Guido restando in piedi come poteva: “Bonne nuit… monsieur. Ça và?" sibilò, dondolando, con la borsetta luccicante di lustrini ben stretta sotto il braccio.
Guido non si mosse dal gradino. La squadrò, come fa l’ubriacone che disapprova i suoi simili.
“E’ inutile che mi chieda un’indicazione, io non sono di queste parti”, disse, mentendo spudoratamente.
"Ma sono già in Svizzera?" chiese l’altra, guardando Piazza Respighi con un'espressione allarmata. "Non mi sembrava di aver superato la dogana."
"Lei è a Torino, in Piazza Ottorino Respighi. Comunque, noi serviamo spesso clienti francesi e parliamo anche le lingue."
La donnona si strofinò gli occhi gonfi, carezzandosi poi il mento e quella leggera peluria baffona, alla Poirot, con l’indice teso.
"Menù di pesce per tutti”, disse decisa. “A vino bianco come state? Pigato di Albenga e Ormeasco, andrebbe bene”, concluse.
Guido alzò un braccio, per interromperla. "Con il pesce ci starebbe bene anche del Bitter Campari!”
"Ottima scelta, ragazzo" ululò, “Bitter Campari per tutti…”
Si voltò e riprese il suo cammino verso l’ignoto, barcollando e cantando a squarciagola… “Bitter Campari è l’aperitivo, nessuno al mondo lo eguaglierà, Bitter Campari è ti senti giulivo…”
Scomparve, inghiottita dalla nebbia.
“Carlo non fissarmi così. Non potevo offrirle il gin, ciucca persa com’era… sto meglio sapendo che tanta gente non sa più su che strada è. Come noi. Mi umilia dalle risate, è un avvilimento intelligente, ironico. Lo vedi? Ho imparato qualcosa! Niente da guadagnare, niente da perdere. Niente da conquistare, niente da difendere: il vuoto, la libertà. E’ bellissimo, nessuna responsabilità, niente pensieri, sensi di colpa, succeda quel che vuole.
I volti adorni di festa, la gente sgualcita da brillanti affanni, lo distraggono. Il cameriere attende, ma è impossibile non lasciarsi affascinare dallo sguardo malinconico di quella quarantacinquenne dai capelli chiari, con il tempo che passa imboscato nel fard. Deve essere ricca. La corteggerà. E’ la sua specialità recitare la parte di principe azzurro e grande amante, che si trasforma per magia in principe… al verde.
L’uomo in livrea gli illustra diligentemente il menù. Ma sì, a Capodanno ci sta bene un antipasto di mare, orata alla griglia con porcini in umido. Come primo un bel piattone d’agnolotti al salmone, grazie.
La carta dei vini. L’anziano cameriere impettito avvertì il dovere di proporgli un ottimo Pigato, ma lui no: Rossese di Dolceacqua. Il rosso è perfetto col pesce. Uno schiaffo al bon ton gastronomico! Carlo, sin da ragazzo, era un insorto di belle speranze. In quella occasione non voleva smentirsi. Era soddisfatto d’aver portato la contestazione enologica sotto le nobili volte di quel ristorante storico.
La bionda, sottintesa nel maquillage, evitava il suo sguardo, e lui si concentrava pigramente sul digiuno esistenziale, carico di debiti. Eppure lo aveva giurato a se stesso: dopo l’esame di maturità va dove vuoi, ma non in quella direzione. Perché? Semplice, le auto sportive non gli piacevano, come le palestre, i cocktail, le cene malevole, il golf, la tecnologia, gli orologi deluxe, le vacanze alle Barbados e le gite a Lugano. Era vincolato, per sentirsi il preferibile. Le ultime ore del 1995 agonizzavano e nonostante fosse costretto a passare San Silvestro da solo, non era voluto restare a casa.
Il 1995, anno di merda, da gettare. Rosalba lo aveva mollato lì, come un ritardato, per passare capodanno in Kenya con un’amica: - Devo prendermi una pausa, rilassarmi un po’. Dopo, forse, potrò decidere se continuare questa storia assurda… aveva detto. Se l’amica era fornita di un bel manico e tanti soldi, lui avrebbe perso… tutto. Carlo faceva il gradasso, ma in realtà spendeva i quattrini degli altri e suo padre era malato: più che l’inizio del nuovo, festeggiava la fine del vecchio.
La sua mente ripensò alla vacanza in luglio con lei, in Spagna, e ad un articolo che aveva letto su una rivista scientifica, seduto in un caffé di Cadaquès: L’ultima ipotesi cosmologica sulla vita dell’Universo.
Il cosmo era come un Dalì. Spaventoso numero di dipinti, disegni, sculture, suddivisibili in ere. All’inizio c’è un puntino con i baffetti, che s’incazza, esplode e inizia a pitturare all’infinito. Poi? Le opere abbandonano l’autore, il loro centro di gravità, escono dalle orbite e vagabondano per la galassia delle gallerie d’arte, delle case, dei musei, infine scompaiono nelle casseforti, in profondi sotterranei: i buchi neri.
I buchi neri inghiottono tutto: Dalì, Catalogna, Rosalba, stelle e pianeti. È la salvezza! I buchi neri stellari sono inglobati da quelli super stellari e questi da quelli galattici che vanno a sommarsi all’immenso buco nero universale. Ed esso si comprime sino a formare il Big Crunch, lo stesso puntino di partenza, che è incazzato al contrario e rivuole tutto indietro. Dalì era un padre eterno, ma assai egocentrico, diciamocelo francamente.
Se andasse così, il ciclo ricomincerebbe e l’eterno ritorno attuerebbe la sua profezia. E invece no! Cosa decidono di fare queste opere d’arte nere, densissime, imprevedibili, accentratrici, identiche a Dalì? Evaporano e decadono, inarrestabili. Si giungerà così all’ultimo atto, nel quale tutto tornerà al geniale zero assoluto: Dalì, appunto.
Ricordò queste considerazioni, fatte cercando di non giudicare troppo il volto di Rosalba, che beveva gaspacho, continuando ad orientare la faccia verso il sole, come un girasole esagerato. Carlo non accettava il passare del tempo e il radicarsi dei difetti estetici e morali sul viso e sul corpo di Rosalba. Lei si ostinava a prendere troppo sole, ovunque e sempre, possibilmente nuda anche sulle spiagge dove era vietato, con i seni rinsecchiti e il culo enorme. Era felice di poter mostrare una corona di solchi e di zampe di gallina attorno agli occhi, da fare invidia alla Strega Nocciola. La sua pelle era incartapecorita, ingiallita, mentre lui ambiva ad un’eterna gioventù; si badi bene, non l’adolescenza, la giovinezza, che regala anche alle persone con un fisico non proprio perfetto una bellezza egualmente piacevole, desiderabile, elegante. Lei, invece, voleva solo che lui contribuisse all’economia della convivenza, trovando un lavoro vero, diceva, uno qualsiasi. Doveva finirla di fare il direttore di una televisione di serie b! Smetterla di giocare d’azzardo, inseguendo affari improbabili! Carlo, combattuto tra dovere, amore ed appagamento estetico, non riusciva a trovare un modo per unificare i pensieri e i giudizi che gli trapassavano la mente come frecce. La meditazione non serviva. La sua consapevolezza voleva pensieri. Sapeva che la conclusione cui giunge ogni mistico è la rimozione di Dio. Dio non è un Altro da amare, da temere o da adorare. Dio è dentro di te: non ci sono broker. E’ così anche per il lavoro. Il lavoro non è una cosa da amare o da temere o da adorare. Il lavoro è dentro di te, senza intermediari; se non l’hai dentro, il lavoro, proprio non puoi capirlo. Fa parte della natura umana aver paura di ciò che non si capisce. L’accettazione del dovere giunge dopo aver completamente rimosso l'Io psicologico. In sintesi, per mantenere vivo il rapporto, non avrebbe dovuto domandarsi se Dio esiste, né chiedersi perché si debba lavorare, ma lavorare, perché così esigeva Rosalba, e non rompere i coglioni.
Nello stesso istante in Piazza Respighi, Guido vide scendere da un taxi una tizia grassoccia, con la faccia da cuoca. Era gonfia, con le guance flaccide da alcolista, radi baffetti alla Poirot. Ondeggiava leggermente su quelle gambe enormi, larghe come copertoni. Sperò che si dileguasse senza notarlo. Inutile, se ne intendeva, fiutava ad occhio se nei paraggi c’era un’altra spugna. Era ben vestita, portamento severo. Sembrava una vera signora, sbronza marcia. Forse aveva anticipato il brindisi di mezzanotte. Si avvicinò a Pier Guido restando in piedi come poteva: “Bonne nuit… monsieur. Ça và?" sibilò, dondolando, con la borsetta luccicante di lustrini ben stretta sotto il braccio.
Guido non si mosse dal gradino. La squadrò, come fa l’ubriacone che disapprova i suoi simili.
“E’ inutile che mi chieda un’indicazione, io non sono di queste parti”, disse, mentendo spudoratamente.
"Ma sono già in Svizzera?" chiese l’altra, guardando Piazza Respighi con un'espressione allarmata. "Non mi sembrava di aver superato la dogana."
"Lei è a Torino, in Piazza Ottorino Respighi. Comunque, noi serviamo spesso clienti francesi e parliamo anche le lingue."
La donnona si strofinò gli occhi gonfi, carezzandosi poi il mento e quella leggera peluria baffona, alla Poirot, con l’indice teso.
"Menù di pesce per tutti”, disse decisa. “A vino bianco come state? Pigato di Albenga e Ormeasco, andrebbe bene”, concluse.
Guido alzò un braccio, per interromperla. "Con il pesce ci starebbe bene anche del Bitter Campari!”
"Ottima scelta, ragazzo" ululò, “Bitter Campari per tutti…”
Si voltò e riprese il suo cammino verso l’ignoto, barcollando e cantando a squarciagola… “Bitter Campari è l’aperitivo, nessuno al mondo lo eguaglierà, Bitter Campari è ti senti giulivo…”
Scomparve, inghiottita dalla nebbia.
“Carlo non fissarmi così. Non potevo offrirle il gin, ciucca persa com’era… sto meglio sapendo che tanta gente non sa più su che strada è. Come noi. Mi umilia dalle risate, è un avvilimento intelligente, ironico. Lo vedi? Ho imparato qualcosa! Niente da guadagnare, niente da perdere. Niente da conquistare, niente da difendere: il vuoto, la libertà. E’ bellissimo, nessuna responsabilità, niente pensieri, sensi di colpa, succeda quel che vuole.