capitolo 6
Lo zero assoluto
Nelle calde case di Piazza Respighi i termosifoni ribollivano a trenta gradi, si avvicinava il momento del ciclico trapasso. I televisori erano accesi sulle festanti piazze d’Italia, dove si esibivano, per pochi miliardi, cantanti, saltimbanchi e fantasisti. I bambini preparavano petardi, girandole, bombe, tric trac e fuochi d’artificio, tutti si alzavano per seguire mariti e fidanzati che con la scusa del caldo insopportabile avevano ormai spalancato finestre e balconi. Tra refoli gelati di nebbia s’insinuava l’epopea dei brindisi, il già detto momento clown dell’universo. Qualcuno avrebbe buttato dalla finestra un servizio spaiato di piatti vecchi, comprato l’anno prima, tre frullatori e una pentola a pressione con i manici squagliati. Qualcun altro un occhio, o due falangi. Per i rari passanti, come Guido, era preferibile non muoversi nella nebbia, si rischiava d’essere beccati da un ferro da stiro volante.
Guido mandò giù il trentesimo sorso di gin. Il liquore gli sembrò soave e pensò: “Che assurdità!”. Ruttò con potenza. Anche il notturno ballabile iniziò a ruttare interferenze, una voce interruppe la musica e iniziò a contare all'indietro. L’anno vecchio stava decollando per Orione e tutti erano pronti ad esultare. La piazza nebbiosa diventava nebulosa, l’universo non era lontano. Meno sette, sei, cinque… quanti pionieri dello spazio stavano brindando sulla Enterprise? Stava per iniziare la guerra siderale dei bottoni. Il vecchio ragazzo vacillò, rincantucciandosi sul gradino.
“Carlo! Carlo! Dove sei andato!”, gridò terrorizzato, un secondo prima della mezzanotte.
“Sono qui, Guido.”
“Avevo paura che ti fossi offeso. Meno male che non mi hai lasciato solo. Scusa, ti spiace se rutto, tanto non si sente con tutti questi scoppi. Mi fa bene, quando penso al passato mi viene la gastrite.”
Lo zero assoluto fu dunque preceduto da un rutto tremendo e da un delirio di botti, ma anche da un tintinnio d’ebbrezza, un mormorio di flûte, musica citrulla e saporiti baci allo stinco di porco.
In centro città, l’antico ristorante si riempì di degenerazione. Il pavimento appiccicoso, i coriandoli colorati, i botti assordanti. Le coppie s’appartavano in angoli bui, scagliate dalla forza centrifuga, la pista si riempiva di vuoti, “lode all’Inviolato”. La gente vorticò sul proprio asse, come un Sufi, ed evaporò, lasciando il cosmo coperto di schifosi avanzi. Ubriaco e solo, Carlo corse al gabinetto per svuotare la vescica. “La tazza è più erotica di una donna in carriera”, pensò, indeciso se masturbarsi o fare pipì. “Ma l’Universo segue il suo corso e anche questo gabinetto sarà distrutto dal tramonto spietato degli atomi, quando tutto si disperderà nel vuoto assoluto.”
Quando uscì dalla stretta porcilaia, avvertì il bisogno di sbattere la testa disgregata sotto l’acqua, per ritrovare una parvenza di lucidità. Aprì il rubinetto e lasciò che il getto gli bagnasse i capelli, infradiciandoli. Si strofinò il viso con forza per restaurarlo, usando le mani come due fogli di carta vetrata n° 4. Poi sollevò lo sguardo e la vide nello specchio.
“Salve, ” disse la donna, con uno spiccato accento tedesco.
Improvvisamente la realtà riportava in vita il razzista che viveva in Carlo. “Lei è tedesca?”
“No, svizzera. Sono a Torino per lavoro. E lei è romano?”
Il razzismo era ricambiato. “No, torinese, anche se la mia pelle è scura.”
“Ci siamo già visti?”, disse l’uomo barcollando, tra i vapori della sbronza.
“Certo, lei era seduto di fronte al mio tavolo.”
“Incredibile com'è nebbioso il mondo dopo tre bottiglie di vino.”
“Perché mi ha corteggiato con gli occhi tutta la sera e ha osato invitarmi a ballare? E’ stato sconveniente.”
Eccola lì: angelo elvetico biondo da combattimento, volto dolce e volpino, carattere dagli spigoli regolari, corpo dai tratti leggermente ossuti. La donna dei suoi sogni.
Trascorse un attimo, lungo come l'eternità in una camera a gas, rotto da alcuni conati dei condannati nella baracche, cioè, nei gabinetti. La sua bocca ben disegnata pareva una stella alpina, spuntata su una pista da sci. Questa volta fu lei a trivellarlo con gli occhi, incurante della sua fragilità: lo aveva proprio notato: “Le piace il tango?”
“Moltissimo”, sintetizzò Carlo.
“Bene, prima non abbiamo potuto ballare …” gli porse una chiave con un numero, “… venga in hotel fra un’ora che ci facciamo qualche bella milonga. Mio marito deve ripartire subito per Locarno.”
“Con piacere signora. Permetta che mi presenti…” disse, affrettandosi a riporre la chiave in tasca.
“Il piacere sarà ricambiato. Io sono Ingrid.”
Uscì dalla toilette rasserenata, urtando con violenza un genovese di passaggio, che la apostrofò: “Belàan, facia de löego, guarda dove vai!” Tradotto in italiano verrebbe da dire: - Ehi, faccia da luogo, guarda dove vai! Un espressione un po’ ermetica, per chi non sa che a Genova il luogo è il gabinetto o meglio il cesso… lercio, fetido e stomachevole, con la tazza sporca, incrostata, traboccante d’acqua ripugnante.
Le donne continuavano a solleticare la sua curiosità, ma Carlo s’era fatto moralista e rifiutava di prendere in considerazione le ventenni. Pensò alla svizzera, e poi al primo rapporto carnale di un certo spessore, solo onanistico. Lorena. Diametralmente opposte. Ingrid magra e irritante, Lorena simpatica e cicciona, con tanto fuoco dentro. Non gli piaceva nulla di lei, ma era il suo primo incontro ravvicinato con la carne cruda. Quando il sesso incombe a livello pornografico, l’estetica non conta quanto l’odore e il tatto. No, di lei non si era innamorato, anzi, se ne vergognava; fatto quel che si doveva la fuggì definitivamente. E che dire di Angela, la morettina ninfomane? Pura follia, una sensualità forte e disperata, una poesia dolorosa e distruttiva, che esaltava in lui la gelosia più feroce. All’inizio non si era chiesto come avesse fatto a portarla via a Guido così facilmente. Poi aveva capito il gioco perverso: era una ragazza di seconda mano… per tutti. Gli raccontava un mucchio di palle e andava a letto con chi glielo chiedeva. Un’attesa, uno sfinimento, un desiderio d’impossibile che lo tagliava in due.
Per non pensare a lei cercava di appesantire la mente. Studiava Hegel e Max Stirner, leggeva i romanzi di Jean Paul Sartre ma… iniziò un’estate solitaria che gli dava la vaga consapevolezza di essere in viaggio per nessun luogo. Gli bastava uscire sul balcone e guardare Piazza Respighi. Dal nono piano prendeva il volo verso mete lontane: Cuba, Pechino, New York, Aldebaran…
Guido mandò giù il trentesimo sorso di gin. Il liquore gli sembrò soave e pensò: “Che assurdità!”. Ruttò con potenza. Anche il notturno ballabile iniziò a ruttare interferenze, una voce interruppe la musica e iniziò a contare all'indietro. L’anno vecchio stava decollando per Orione e tutti erano pronti ad esultare. La piazza nebbiosa diventava nebulosa, l’universo non era lontano. Meno sette, sei, cinque… quanti pionieri dello spazio stavano brindando sulla Enterprise? Stava per iniziare la guerra siderale dei bottoni. Il vecchio ragazzo vacillò, rincantucciandosi sul gradino.
“Carlo! Carlo! Dove sei andato!”, gridò terrorizzato, un secondo prima della mezzanotte.
“Sono qui, Guido.”
“Avevo paura che ti fossi offeso. Meno male che non mi hai lasciato solo. Scusa, ti spiace se rutto, tanto non si sente con tutti questi scoppi. Mi fa bene, quando penso al passato mi viene la gastrite.”
Lo zero assoluto fu dunque preceduto da un rutto tremendo e da un delirio di botti, ma anche da un tintinnio d’ebbrezza, un mormorio di flûte, musica citrulla e saporiti baci allo stinco di porco.
In centro città, l’antico ristorante si riempì di degenerazione. Il pavimento appiccicoso, i coriandoli colorati, i botti assordanti. Le coppie s’appartavano in angoli bui, scagliate dalla forza centrifuga, la pista si riempiva di vuoti, “lode all’Inviolato”. La gente vorticò sul proprio asse, come un Sufi, ed evaporò, lasciando il cosmo coperto di schifosi avanzi. Ubriaco e solo, Carlo corse al gabinetto per svuotare la vescica. “La tazza è più erotica di una donna in carriera”, pensò, indeciso se masturbarsi o fare pipì. “Ma l’Universo segue il suo corso e anche questo gabinetto sarà distrutto dal tramonto spietato degli atomi, quando tutto si disperderà nel vuoto assoluto.”
Quando uscì dalla stretta porcilaia, avvertì il bisogno di sbattere la testa disgregata sotto l’acqua, per ritrovare una parvenza di lucidità. Aprì il rubinetto e lasciò che il getto gli bagnasse i capelli, infradiciandoli. Si strofinò il viso con forza per restaurarlo, usando le mani come due fogli di carta vetrata n° 4. Poi sollevò lo sguardo e la vide nello specchio.
“Salve, ” disse la donna, con uno spiccato accento tedesco.
Improvvisamente la realtà riportava in vita il razzista che viveva in Carlo. “Lei è tedesca?”
“No, svizzera. Sono a Torino per lavoro. E lei è romano?”
Il razzismo era ricambiato. “No, torinese, anche se la mia pelle è scura.”
“Ci siamo già visti?”, disse l’uomo barcollando, tra i vapori della sbronza.
“Certo, lei era seduto di fronte al mio tavolo.”
“Incredibile com'è nebbioso il mondo dopo tre bottiglie di vino.”
“Perché mi ha corteggiato con gli occhi tutta la sera e ha osato invitarmi a ballare? E’ stato sconveniente.”
Eccola lì: angelo elvetico biondo da combattimento, volto dolce e volpino, carattere dagli spigoli regolari, corpo dai tratti leggermente ossuti. La donna dei suoi sogni.
Trascorse un attimo, lungo come l'eternità in una camera a gas, rotto da alcuni conati dei condannati nella baracche, cioè, nei gabinetti. La sua bocca ben disegnata pareva una stella alpina, spuntata su una pista da sci. Questa volta fu lei a trivellarlo con gli occhi, incurante della sua fragilità: lo aveva proprio notato: “Le piace il tango?”
“Moltissimo”, sintetizzò Carlo.
“Bene, prima non abbiamo potuto ballare …” gli porse una chiave con un numero, “… venga in hotel fra un’ora che ci facciamo qualche bella milonga. Mio marito deve ripartire subito per Locarno.”
“Con piacere signora. Permetta che mi presenti…” disse, affrettandosi a riporre la chiave in tasca.
“Il piacere sarà ricambiato. Io sono Ingrid.”
Uscì dalla toilette rasserenata, urtando con violenza un genovese di passaggio, che la apostrofò: “Belàan, facia de löego, guarda dove vai!” Tradotto in italiano verrebbe da dire: - Ehi, faccia da luogo, guarda dove vai! Un espressione un po’ ermetica, per chi non sa che a Genova il luogo è il gabinetto o meglio il cesso… lercio, fetido e stomachevole, con la tazza sporca, incrostata, traboccante d’acqua ripugnante.
Le donne continuavano a solleticare la sua curiosità, ma Carlo s’era fatto moralista e rifiutava di prendere in considerazione le ventenni. Pensò alla svizzera, e poi al primo rapporto carnale di un certo spessore, solo onanistico. Lorena. Diametralmente opposte. Ingrid magra e irritante, Lorena simpatica e cicciona, con tanto fuoco dentro. Non gli piaceva nulla di lei, ma era il suo primo incontro ravvicinato con la carne cruda. Quando il sesso incombe a livello pornografico, l’estetica non conta quanto l’odore e il tatto. No, di lei non si era innamorato, anzi, se ne vergognava; fatto quel che si doveva la fuggì definitivamente. E che dire di Angela, la morettina ninfomane? Pura follia, una sensualità forte e disperata, una poesia dolorosa e distruttiva, che esaltava in lui la gelosia più feroce. All’inizio non si era chiesto come avesse fatto a portarla via a Guido così facilmente. Poi aveva capito il gioco perverso: era una ragazza di seconda mano… per tutti. Gli raccontava un mucchio di palle e andava a letto con chi glielo chiedeva. Un’attesa, uno sfinimento, un desiderio d’impossibile che lo tagliava in due.
Per non pensare a lei cercava di appesantire la mente. Studiava Hegel e Max Stirner, leggeva i romanzi di Jean Paul Sartre ma… iniziò un’estate solitaria che gli dava la vaga consapevolezza di essere in viaggio per nessun luogo. Gli bastava uscire sul balcone e guardare Piazza Respighi. Dal nono piano prendeva il volo verso mete lontane: Cuba, Pechino, New York, Aldebaran…