capitolo 10
Erik e la Val Pellice
Le giornate di Erik, prima della gran botta che lo avrebbe sistemato con la dolce Carlotta, trascorrevano nella più limpida normalità. Era un ragazzo d’oro, dal sorriso argentino, con la faccia di bronzo e un carattere di stagno, abituato ai felici ritmi ramati della montagna. Ora, la già strana e preziosa cronaca, si arricchisce di un'altra singolarità. Erik abitava a Rorà, ridente gruppo di casupole in Val Pellice ai piedi del Monte Frioland, dove vivevano, forse, cinquecento anime.
Per un italiano nascere in Val Pellice era bizzarro e impegnativo. Sarebbe più esatto affermare che per un abitante della Val Pellice era una sfiga nascere italiano. Questo perché ogni piccolo territorio di confine occupato da minoranze etniche o religiose è luogo di persecuzioni, sempre sottoposto a ripetuti tentativi di genocidio e d’omologazione.
I mondi a parte devono sempre difendere riti ed usanze uniche ed originali, come i Tirolesi dell’Alto Adige, gli Albanesi di Puglia, i Catalani di Sardegna, i sette nani di Biancaneve e i 4+4 di Nora Orlandi.
La Val Pellice, ad una sessantina di chilometri da Torino, è un caso unico nella storia italiana, perché nel XIII secolo divenne la patria dei Poveri di Cristo. Era questa una delle prime bande ereticali, nata a Lione molti anni prima che Francesco d’Assisi e Martino Lutero iniziassero a dare il cattivo esempio. Il loro leader era Pietro Valdo, mercante, guerriero, che voleva interpretare la Bibbia e non solo guardare le figure, senza la mediazione dei vignettisti vaticani. Scandalo degli scandali: tutti i suoi adepti iniziarono a ridere e si dissero pronti a ritornare alla povertà evangelica. Il movimento crebbe, lanciando strali contro Roma ladrona, beona, mangiona e cortigiana. E, puntuale come un cucù svizzero, piombò su di loro la scomunica. I Poveri di Cristo, vagarono per l’Europa, costretti a vivere la fede in clandestinità, guidati dai loro predicatori chiamati Barba, non perché fossero così pitocchi da non potersi comprare un rasoio, ma perché in provenzale Barba significa zio.
I Valdesi si stanziarono nell'area alpina occidentale agli inizi del XIII secolo al seguito di missionari provenienti, forse, dalla Lombardia, territorio di maggior fioritura del movimento. I signorotti della Val Lucerna, così chiamavano allora la Val Pellice, traevano dalla loro presenza rilevanti utili e non infierirono, ma spesso dovettero compiacere gli inquisitori che davano loro una caccia spietata. A differenza di quanto accadde in altre regioni d'Europa con gli Ugonotti o i Catari, la dissidenza valdese fu granitica, come i monti che dominano la Valle. Neppure gli eserciti la poterono cancellare. Anche le crociate, da quella degli Acaja nel 1480, a quella dei franco-piemontesi del 1655, si scontrarono con una resistenza superba. La popolazione difese libertà e identità combattendo, e non esitando ad eliminare preti, delatori e inquisitori. Erik era orgoglioso di vivere nel Vallone di Rorà, il centro della resistenza guidata da Giosuè Gianaviello, nel 1655.
Gianaviello impiegò la lotta armata ed una strategia partigiana: imboscate, incursioni, attentati, sino a bombardare i nemici dalle alture con cannoni di legno. Fu uno scontro disperato, che terminò con il massacro e l’esilio. Ma i Valdesi nel 1689 ritornarono a casa con la celebre marcia del Glorioso Rimpatrio. Fino al 1848, però, con la sola eccezione degli anni di libertà sotto Napoleone, vissero ghettizzati, privati dei diritti civili e politici, come gli ebrei. Solo con l'editto del 17 febbraio 1848 divennero sudditi piemontesi con il diritto di spostarsi nello Stato, frequentare le scuole e ottenere incarichi pubblici. Gli amanti della libertà e della giustizia dovrebbero studiare le vicende di questo popolo eroico, battagliero, fedele a Dio, da secoli. Secoli non sintetizzabili in un paragrafo, secoli di battaglie contro i signori feudali, i Savoia, l’oscurantismo della Chiesa Cattolica e, naturalmente, contro i… nazi-fascisti.
Fatto strano per un valdese: da ragazzo Erik stava dalla parte dei vincitori. Perciò negli anni in cui il Bologna e il Fascismo erano sempre ai vertici del campionato, lui tifava per la squadra emiliana e il partito fascista. La sua famiglia abitava in fondo al vallone di Mugniva, in una casetta della frazione detta Le Pichere.
Mentre i suoi genitori accudivano le bestie, tagliavano il fieno, facevano il burro e il formaggio, lui si esaltava per la guerra d’Etiopia e i destini imperiali d’Italia. Verso il diciottesimo anno d’età, iniziò a fare la spola fra Rorà, Luserna, San Giovanni e Torre Pellice con una bicicletta a motore, canticchiando allegramente: “Bell’abissina, faccetta nera, aspetta e spera che già l’ora s’avvicina, quando saremo vicino a te, noi ti daremo un nuovo duce e un nuovo re…”
Erik era alto, allampanato, aveva una chioma corvina, folta e insofferente, la faccia cavallina, un naso lungo, grosso, camuso, legnoso, che le donne guardavano prima con ostilità, poi con sempre maggior interesse, rammentando che il naso rivela la prestanza virile. Per lui fu naturale eccellere nelle relazioni… pubiche. Diventò l’amante della moglie del farmacista di Torre, della moglie del geometra di Bibiana e l’amante dell’amante del salumiere di Lusernetta. Ma questa storia non durò molto perché lei tifava per il Modena, che di lì ad un anno, 1939-40, sarebbe sceso in serie B. Che sfiga sto Modena.
Quel pomeriggio, - che se l’ascoltavi attentamente tendeva a far sera ma non era troppo tardi - impomatandosi la testa davanti allo specchio con due etti di brillantina, iniziò a rimproverarsi.
“Che vergogna, un bel ragazzo come te non deve buttarsi via con donne così vecchie! Hai bisogno di nuove mete!” Mollò tutte le fiamme stagionate e si fidanzò con la figlia di un geometra di Bagnolo, anche se era fuori zona, nella vicina valle del Po, già in provincia di Cuneo. Aveva bisogno di viaggiare, di vedere posti nuovi, di scoprire orizzonti sconosciuti! L’estate bussava ai pantaloni, promettendo cieli sereni e camporelle in fiore.
Quel pomeriggio del 10 giugno, Erik canticchiava felice: la nuova innamorata lo aveva invitato in villa per il tè, nel pomeriggio. Sarebbe stata sola. Prima di partire volle assicurarsi che sua madre avesse rimesso nel fornetto della stufa i cosciotti d’agnello, che avevano iniziato a cuocere la sera prima. Erano lì, belli, belli, avvolti nel fieno maggengo. Cena assicurata, il fuoco nella stufa si sarebbe attenuato, ma il fieno avrebbe assorbito sufficiente calore per terminare la cottura. Durante la bella stagione tutti lavoravano nei campi, (tranne lui) e il cibo lo si doveva preparare in anticipo, ingegnandosi.
Erik uscì, elegante, profumato e salì ardimentoso sulla moto di Berto, un amico che sgobbava, proponendosi di domandargliela in prestito al ritorno. Puntò dritto su Bibiana. La marmitta sputacchiava, ilare e cordiale. L’odore della miscela bruciata si mescolava ai profumi della campagna. A Bibiana non si fermò; tirò dritto verso Bagnolo. Nel primo tratto di strada la pendenza era forte e la moto protestava, sulla salita arrancava, tirava calci come un mulo, quasi decisa a fermarsi. Ma poi fu la libertà: una lunga discesa, un chilometro ancora e raggiunse la villa in perfetto orario.
Per un italiano nascere in Val Pellice era bizzarro e impegnativo. Sarebbe più esatto affermare che per un abitante della Val Pellice era una sfiga nascere italiano. Questo perché ogni piccolo territorio di confine occupato da minoranze etniche o religiose è luogo di persecuzioni, sempre sottoposto a ripetuti tentativi di genocidio e d’omologazione.
I mondi a parte devono sempre difendere riti ed usanze uniche ed originali, come i Tirolesi dell’Alto Adige, gli Albanesi di Puglia, i Catalani di Sardegna, i sette nani di Biancaneve e i 4+4 di Nora Orlandi.
La Val Pellice, ad una sessantina di chilometri da Torino, è un caso unico nella storia italiana, perché nel XIII secolo divenne la patria dei Poveri di Cristo. Era questa una delle prime bande ereticali, nata a Lione molti anni prima che Francesco d’Assisi e Martino Lutero iniziassero a dare il cattivo esempio. Il loro leader era Pietro Valdo, mercante, guerriero, che voleva interpretare la Bibbia e non solo guardare le figure, senza la mediazione dei vignettisti vaticani. Scandalo degli scandali: tutti i suoi adepti iniziarono a ridere e si dissero pronti a ritornare alla povertà evangelica. Il movimento crebbe, lanciando strali contro Roma ladrona, beona, mangiona e cortigiana. E, puntuale come un cucù svizzero, piombò su di loro la scomunica. I Poveri di Cristo, vagarono per l’Europa, costretti a vivere la fede in clandestinità, guidati dai loro predicatori chiamati Barba, non perché fossero così pitocchi da non potersi comprare un rasoio, ma perché in provenzale Barba significa zio.
I Valdesi si stanziarono nell'area alpina occidentale agli inizi del XIII secolo al seguito di missionari provenienti, forse, dalla Lombardia, territorio di maggior fioritura del movimento. I signorotti della Val Lucerna, così chiamavano allora la Val Pellice, traevano dalla loro presenza rilevanti utili e non infierirono, ma spesso dovettero compiacere gli inquisitori che davano loro una caccia spietata. A differenza di quanto accadde in altre regioni d'Europa con gli Ugonotti o i Catari, la dissidenza valdese fu granitica, come i monti che dominano la Valle. Neppure gli eserciti la poterono cancellare. Anche le crociate, da quella degli Acaja nel 1480, a quella dei franco-piemontesi del 1655, si scontrarono con una resistenza superba. La popolazione difese libertà e identità combattendo, e non esitando ad eliminare preti, delatori e inquisitori. Erik era orgoglioso di vivere nel Vallone di Rorà, il centro della resistenza guidata da Giosuè Gianaviello, nel 1655.
Gianaviello impiegò la lotta armata ed una strategia partigiana: imboscate, incursioni, attentati, sino a bombardare i nemici dalle alture con cannoni di legno. Fu uno scontro disperato, che terminò con il massacro e l’esilio. Ma i Valdesi nel 1689 ritornarono a casa con la celebre marcia del Glorioso Rimpatrio. Fino al 1848, però, con la sola eccezione degli anni di libertà sotto Napoleone, vissero ghettizzati, privati dei diritti civili e politici, come gli ebrei. Solo con l'editto del 17 febbraio 1848 divennero sudditi piemontesi con il diritto di spostarsi nello Stato, frequentare le scuole e ottenere incarichi pubblici. Gli amanti della libertà e della giustizia dovrebbero studiare le vicende di questo popolo eroico, battagliero, fedele a Dio, da secoli. Secoli non sintetizzabili in un paragrafo, secoli di battaglie contro i signori feudali, i Savoia, l’oscurantismo della Chiesa Cattolica e, naturalmente, contro i… nazi-fascisti.
Fatto strano per un valdese: da ragazzo Erik stava dalla parte dei vincitori. Perciò negli anni in cui il Bologna e il Fascismo erano sempre ai vertici del campionato, lui tifava per la squadra emiliana e il partito fascista. La sua famiglia abitava in fondo al vallone di Mugniva, in una casetta della frazione detta Le Pichere.
Mentre i suoi genitori accudivano le bestie, tagliavano il fieno, facevano il burro e il formaggio, lui si esaltava per la guerra d’Etiopia e i destini imperiali d’Italia. Verso il diciottesimo anno d’età, iniziò a fare la spola fra Rorà, Luserna, San Giovanni e Torre Pellice con una bicicletta a motore, canticchiando allegramente: “Bell’abissina, faccetta nera, aspetta e spera che già l’ora s’avvicina, quando saremo vicino a te, noi ti daremo un nuovo duce e un nuovo re…”
Erik era alto, allampanato, aveva una chioma corvina, folta e insofferente, la faccia cavallina, un naso lungo, grosso, camuso, legnoso, che le donne guardavano prima con ostilità, poi con sempre maggior interesse, rammentando che il naso rivela la prestanza virile. Per lui fu naturale eccellere nelle relazioni… pubiche. Diventò l’amante della moglie del farmacista di Torre, della moglie del geometra di Bibiana e l’amante dell’amante del salumiere di Lusernetta. Ma questa storia non durò molto perché lei tifava per il Modena, che di lì ad un anno, 1939-40, sarebbe sceso in serie B. Che sfiga sto Modena.
Quel pomeriggio, - che se l’ascoltavi attentamente tendeva a far sera ma non era troppo tardi - impomatandosi la testa davanti allo specchio con due etti di brillantina, iniziò a rimproverarsi.
“Che vergogna, un bel ragazzo come te non deve buttarsi via con donne così vecchie! Hai bisogno di nuove mete!” Mollò tutte le fiamme stagionate e si fidanzò con la figlia di un geometra di Bagnolo, anche se era fuori zona, nella vicina valle del Po, già in provincia di Cuneo. Aveva bisogno di viaggiare, di vedere posti nuovi, di scoprire orizzonti sconosciuti! L’estate bussava ai pantaloni, promettendo cieli sereni e camporelle in fiore.
Quel pomeriggio del 10 giugno, Erik canticchiava felice: la nuova innamorata lo aveva invitato in villa per il tè, nel pomeriggio. Sarebbe stata sola. Prima di partire volle assicurarsi che sua madre avesse rimesso nel fornetto della stufa i cosciotti d’agnello, che avevano iniziato a cuocere la sera prima. Erano lì, belli, belli, avvolti nel fieno maggengo. Cena assicurata, il fuoco nella stufa si sarebbe attenuato, ma il fieno avrebbe assorbito sufficiente calore per terminare la cottura. Durante la bella stagione tutti lavoravano nei campi, (tranne lui) e il cibo lo si doveva preparare in anticipo, ingegnandosi.
Erik uscì, elegante, profumato e salì ardimentoso sulla moto di Berto, un amico che sgobbava, proponendosi di domandargliela in prestito al ritorno. Puntò dritto su Bibiana. La marmitta sputacchiava, ilare e cordiale. L’odore della miscela bruciata si mescolava ai profumi della campagna. A Bibiana non si fermò; tirò dritto verso Bagnolo. Nel primo tratto di strada la pendenza era forte e la moto protestava, sulla salita arrancava, tirava calci come un mulo, quasi decisa a fermarsi. Ma poi fu la libertà: una lunga discesa, un chilometro ancora e raggiunse la villa in perfetto orario.