capitolo 4
poco prima del botto
“È così, Carlo, povero me, momenti come questi punteggiano i giorni di una vita garantita: che bella depressione, la tua donna che vuole scappare con Enrico Ruggeri! Una di queste sere la sbatto fuori casa, cambio porta, serrature e non ci penso più. Che torni dai suoi, anche se sono morti.
A noi è sempre piaciuta l'ironia, come quando mi davi tanti schiaffetti sulla faccia, fino a farmela diventare rossa come un gambero. Era per far ridere le ragazze. Che figata, eh! Loro non sapevano che eravamo d'accordo. Ti sarò sempre riconoscente per quello che mi hai fatto, è grazie a te se riuscivo ad essere divertente. Adesso, per passare una serata favolosa, devo prendermi a schiaffi da solo davanti allo specchio, sperando che Monica mi telefoni dal letto di qualcuno. Ridacchio, sogghigno, mi faccio qualche linguaccia, mi mancano tanto le tue pacche, anzi, diciamo pure sberle, peccato. Sì, Carlo, tu vivi al di sopra delle mie possibilità anche nei flashback.”
Continua ad essere il 31 Dicembre 1995. In Piazza Respighi il notturno ballabile diventa padrone della nebbia, sempre più fitta: ”C’è gente che ha avuto mille cose, tutto il bene e tutto il male del mondo, io ho avuto solo te, e non ti perderò, non ti lascerò per cercare nuove avventure...”
“Carlo… sei sempre qui?! Ah, eccoti, non ti vedevo più. Ti ricordi quella sera che mi allenasti per vincere i cento metri alle gare scolastiche? Per farmi correre più forte mi hai legato con una corda al sellino della Lambretta, sei partito facendo l’andatura e poi, quando meno me l'aspettavo, hai dato gas a manetta?! Le risate! Noi abbiamo inventato lo sci sull’asfalto! Ridevano proprio tutti, anche l'infermiera del pronto soccorso all’Astanteria Martini, che prima di medicarmi il viso, cioè la maschera dell’orrore, è venuta a bere una cosa con te al bar, perché eri troppo divertente, mentre io stavo perdendo qualche ettolitro di sangue! Anzi, qualche decametro, visto che lasciavo la scia sull’asfalto come Pollicino. Una sola volta in vita mia ho riso così tanto, quando da bambino ho bevuto una boccetta d'inchiostro e mio padre, per non portarmi in ospedale, mi ha fatto mangiare due etti di carta assorbente. Che risate, la mia vita è sempre stata una grande risata.
“Lo so perfettamente, amico mio”, disse l’allucinazione di Carlo, materializzatosi tra i fumi del delirio causato dal gin, sceso nello stomaco di Guido per far complotto con i quattro piatti di lasagne e la peperonata che aveva sbranato a cena.
“Tu zarro, tamarro, periferico, scaccolatore quarantenne che non sei altro, perché vuoi raccontare la nostra storia? Inutili, nostalgici ricordi di un dopo guerra che non c’è più e non tornerà. Non credi che sia anacronistico e fuori moda?“
"Non dico di no Carlo e neppure tu lo dici, vero?"
"No, non lo dico, tieni l'accendino, fuma, grugnì il fantasma di Carlo, avvitandosi ancor più stretto nell’eskimo verde. Stillarono lacrime di mal bianco. La scena sarebbe stata perfetta se fosse passata un Ape Car con l’anziano feramiü, che gridava… madame, madame! Il tossire della marmitta scassata avrebbe cadenzato l’eternità, per poi scomparire per sempre, assorbito dalla nebbia.
In quel momento il Carlo in carne ed ossa vide arrivare l’antipasto e un assaggio d’ostriche e caviale nipponico, vagamente zen. Quegli ovetti neri erano più grossi delle uova di lompo ed anche più cari. Provava inquietudine a rimpinzarsi di prelibati aborti: vide in un lampo le madri Storione, sventrate, che lo caricavano di sensi di colpa. Non ci pensò più e cominciò la gran mangiata.
Una consapevolezza: succhiare un’ostrica gli aveva sempre fatto l’effetto di divorare una vagina, in tanti anni di vita aveva avuto decine d’esperienze erotiche e non, con donne diverse, ma tutte fallite. Si faceva rifiutare, perché cercava bellezza, giovinezza, relax e piacere. Invece, alla fine, scopriva che c’era sempre qualche dovere. Portava alle estreme conseguenze i silenzi, i mugugni o le velate critiche a cose, mode, modi e persone amate dalle amate: troppo spesso, ad onor del vero, diceva quello che la mente gli imponeva di pensare sui difetti fisici e morali delle sue compagne. Poi ritraeva la mano, affermando di non capire, di amarle, di non volerle perdere, voleva che fossero loro a rifiutarlo per sempre, o ad accettarlo come negatore della stabilità e del senso comune.
Perché cercava solamente pigrizia, bellezza e giovinezza, pur non essendo una persona superficiale? Eppure le sue antiche compagne, se non proprio delle Veneri, erano state delle ragazze graziose, normali, interessanti. Si chiedeva spesso quante n’aveva amate e altrettanto spesso si rispondeva, nessuna. Ma in realtà le aveva amate quasi tutte. Quali sono i sintomi dell’amore?
Nel primo mistero di questa malattia, la realtà chimica della mente impone sesso, novità e corteggiamento, ma anche bellezza e giovinezza. Nel secondo mistero, l’amore, passata la passione per il nuovo, è sempre un compromesso fra corpo e spirito. O meglio, fra sensi ed equilibrio pragmatico e sentimento per i sentimenti e le attese del partner. Nel terzo mistero c’è la solitudine, dove enumerare, analizzare, catalogare ed archiviare i ricordi; in tal modo la mente trova, se non la pace, un certo qual appagamento che soddisfa il suo narcisismo. Anche quelle erano tentazioni, ma retroattive, un peccato d’orgoglio e di presunzione, che però lo rimetteva in pari con il distacco interiore. Nel quarto mistero c’è l’indifferenza del collezionista di reperti archeologici, che ammira i cimeli faticosamente raccolti in anni di scavi nella sabbia del deserto. In questa contemplazione, ancora attiva in vero, il senso della sua vita lo avvolgeva in una sorta di siccità interiore. Bocca inaridita. Tracanno d’un fiato un calice di vino… il senso della vita, in quel momento, era spolverare il piatto e asciugare la bottiglia. Forse la bionda finalmente osava: lo guardò, emergendo dal cosmetico. Che anno di merda: arrivò il marito.
A noi è sempre piaciuta l'ironia, come quando mi davi tanti schiaffetti sulla faccia, fino a farmela diventare rossa come un gambero. Era per far ridere le ragazze. Che figata, eh! Loro non sapevano che eravamo d'accordo. Ti sarò sempre riconoscente per quello che mi hai fatto, è grazie a te se riuscivo ad essere divertente. Adesso, per passare una serata favolosa, devo prendermi a schiaffi da solo davanti allo specchio, sperando che Monica mi telefoni dal letto di qualcuno. Ridacchio, sogghigno, mi faccio qualche linguaccia, mi mancano tanto le tue pacche, anzi, diciamo pure sberle, peccato. Sì, Carlo, tu vivi al di sopra delle mie possibilità anche nei flashback.”
Continua ad essere il 31 Dicembre 1995. In Piazza Respighi il notturno ballabile diventa padrone della nebbia, sempre più fitta: ”C’è gente che ha avuto mille cose, tutto il bene e tutto il male del mondo, io ho avuto solo te, e non ti perderò, non ti lascerò per cercare nuove avventure...”
“Carlo… sei sempre qui?! Ah, eccoti, non ti vedevo più. Ti ricordi quella sera che mi allenasti per vincere i cento metri alle gare scolastiche? Per farmi correre più forte mi hai legato con una corda al sellino della Lambretta, sei partito facendo l’andatura e poi, quando meno me l'aspettavo, hai dato gas a manetta?! Le risate! Noi abbiamo inventato lo sci sull’asfalto! Ridevano proprio tutti, anche l'infermiera del pronto soccorso all’Astanteria Martini, che prima di medicarmi il viso, cioè la maschera dell’orrore, è venuta a bere una cosa con te al bar, perché eri troppo divertente, mentre io stavo perdendo qualche ettolitro di sangue! Anzi, qualche decametro, visto che lasciavo la scia sull’asfalto come Pollicino. Una sola volta in vita mia ho riso così tanto, quando da bambino ho bevuto una boccetta d'inchiostro e mio padre, per non portarmi in ospedale, mi ha fatto mangiare due etti di carta assorbente. Che risate, la mia vita è sempre stata una grande risata.
“Lo so perfettamente, amico mio”, disse l’allucinazione di Carlo, materializzatosi tra i fumi del delirio causato dal gin, sceso nello stomaco di Guido per far complotto con i quattro piatti di lasagne e la peperonata che aveva sbranato a cena.
“Tu zarro, tamarro, periferico, scaccolatore quarantenne che non sei altro, perché vuoi raccontare la nostra storia? Inutili, nostalgici ricordi di un dopo guerra che non c’è più e non tornerà. Non credi che sia anacronistico e fuori moda?“
"Non dico di no Carlo e neppure tu lo dici, vero?"
"No, non lo dico, tieni l'accendino, fuma, grugnì il fantasma di Carlo, avvitandosi ancor più stretto nell’eskimo verde. Stillarono lacrime di mal bianco. La scena sarebbe stata perfetta se fosse passata un Ape Car con l’anziano feramiü, che gridava… madame, madame! Il tossire della marmitta scassata avrebbe cadenzato l’eternità, per poi scomparire per sempre, assorbito dalla nebbia.
In quel momento il Carlo in carne ed ossa vide arrivare l’antipasto e un assaggio d’ostriche e caviale nipponico, vagamente zen. Quegli ovetti neri erano più grossi delle uova di lompo ed anche più cari. Provava inquietudine a rimpinzarsi di prelibati aborti: vide in un lampo le madri Storione, sventrate, che lo caricavano di sensi di colpa. Non ci pensò più e cominciò la gran mangiata.
Una consapevolezza: succhiare un’ostrica gli aveva sempre fatto l’effetto di divorare una vagina, in tanti anni di vita aveva avuto decine d’esperienze erotiche e non, con donne diverse, ma tutte fallite. Si faceva rifiutare, perché cercava bellezza, giovinezza, relax e piacere. Invece, alla fine, scopriva che c’era sempre qualche dovere. Portava alle estreme conseguenze i silenzi, i mugugni o le velate critiche a cose, mode, modi e persone amate dalle amate: troppo spesso, ad onor del vero, diceva quello che la mente gli imponeva di pensare sui difetti fisici e morali delle sue compagne. Poi ritraeva la mano, affermando di non capire, di amarle, di non volerle perdere, voleva che fossero loro a rifiutarlo per sempre, o ad accettarlo come negatore della stabilità e del senso comune.
Perché cercava solamente pigrizia, bellezza e giovinezza, pur non essendo una persona superficiale? Eppure le sue antiche compagne, se non proprio delle Veneri, erano state delle ragazze graziose, normali, interessanti. Si chiedeva spesso quante n’aveva amate e altrettanto spesso si rispondeva, nessuna. Ma in realtà le aveva amate quasi tutte. Quali sono i sintomi dell’amore?
Nel primo mistero di questa malattia, la realtà chimica della mente impone sesso, novità e corteggiamento, ma anche bellezza e giovinezza. Nel secondo mistero, l’amore, passata la passione per il nuovo, è sempre un compromesso fra corpo e spirito. O meglio, fra sensi ed equilibrio pragmatico e sentimento per i sentimenti e le attese del partner. Nel terzo mistero c’è la solitudine, dove enumerare, analizzare, catalogare ed archiviare i ricordi; in tal modo la mente trova, se non la pace, un certo qual appagamento che soddisfa il suo narcisismo. Anche quelle erano tentazioni, ma retroattive, un peccato d’orgoglio e di presunzione, che però lo rimetteva in pari con il distacco interiore. Nel quarto mistero c’è l’indifferenza del collezionista di reperti archeologici, che ammira i cimeli faticosamente raccolti in anni di scavi nella sabbia del deserto. In questa contemplazione, ancora attiva in vero, il senso della sua vita lo avvolgeva in una sorta di siccità interiore. Bocca inaridita. Tracanno d’un fiato un calice di vino… il senso della vita, in quel momento, era spolverare il piatto e asciugare la bottiglia. Forse la bionda finalmente osava: lo guardò, emergendo dal cosmetico. Che anno di merda: arrivò il marito.